In un articolo pubblicato sull’European Physical Journal D poco più di un anno fa emergono nuove idee sulle origini della costante di struttura fine: non un valore assolutamente costante stabilito a priori dalla natura per permettere al nostro universo di ospitare la vita, ma una conseguenza del modo stocastico di interagire delle cariche elettriche durante la formazione degli atomi di idrogeno in un universo primordiale.
La storia della scienza è costellata da grandi e piccole scoperte che una alla volta ci hanno fornito e continuano a fornirci un quadro completo sempre migliorabile, di quel puzzle variegato che chiamiamo universo. Uno degli aspetti più entusiasmanti di questa avvincente parte di storia della scienza è iniziato duemilaquattrocento anni fa con Democrito e Leucippo e riguarda il concetto di atomo e di vuoto, nel senso della contrapposizione sinergica tra l’esistenza e la non esistenza di quell’elemento primo di cui sono fatte le stelle ed è composta la materia nella forma anche più complessa. Gli atomi di idrogeno sono il risultato ultimo di un processo che ha portato l’universo ad essere composto dal vuoto, che chiamiamo spazio-tempo e dalla materia nella sua forma più elementare composta dal primo elemento della tavola periodica, appunto l’idrogeno, per poi evolversi lentamente all’interno delle stelle e anche nelle supernove fino a formare atomi di elementi pesanti fino ai transuranici.
Non è mia intenzione iniziare questo raconto da così lontano, vorrei però far comprendere come due componenti così diversi, apparentemente antitetici come il vuoto e la materia siano stati alla base del pensiero filosofico e scientifico dell’uomo praticamente da sempre e nonostante la loro evoluzione verso modelli sempre più complessi e raffinati che li vuole in simbiosi nell’universo, in termini filosofici rimangono sempre gli stessi di duemilaquattrocento anni fa.
Facciamo ora un salto temporale. Nel 1913, a seguito della pubblicazione sul Phylosophical Magazin and Journal of Science dell’articolo di Niels Bohr “On the Costitution of Atoms and Molecules“, il primo di una trilogia, nasce il primo modello atomico dell’era moderna. In realtà altri prima di Bohr avevano già pochi anni prima proposto dei modelli di atomo, i modelli di Thomson e Rutherford pur essendo dei passi fondamentali, pietre miliari nello sviluppo del modello atomico, presentavano alcuni difetti insormontabili che potevano essere facilmente evidenziati sperimentalmente. Il modello di Bohr dava invece una descrizione quasi perfetta della realtà atomica e spettroscopica ed è proprio per questo che è tutt’ora usato anche se corretto nelle sue evoluzioni meccanico-quantistiche più moderne.
Il modello atomico di Bohr descrive un atomo come composto da un nucleo positivo al cento e da elettroni orbitanti intorno al nucleo esattamente come quello planetario di Rutherford di cui di fatto è una evoluzione. Quello di Rutherford aveva però l’odioso difetto di non essere in grado di descrivere un atomo stabile e di non poter quindi descrivere nessun elemento chimico, nemmeno il più semplice come l’idrogeno. Il modello di Bohr descriveva invece perfettamente un atomo stabile e in modo rigorosamente predittivo in termini spettroscopici permettendo di calcolare lunghezza d’onda e energia ma aveva a sua volta un piccolo difetto, si basava su ipotesi nuove, non ancora perfettamente testate parzialmente estranee alla fisica stabilizzata dell’epoca. I principi di quantizzazione dell’energia e del momento angolare utilizzati da Bohr, erano infatti sicuramente stati ispirati dai lavori di Max Planck sullo Spettro di Corpo Nero del 1900 e di Albert Einstein sull’Effetto Fotoelettrico nel 1905, ma erano idee non ancora perfettamente metabolizzate dalla fisica dell’epoca.
L’ipotesi di quantizzazione di Planck, inizialmente nata come semplice ipotesi di lavoro per studiare lo spettro di corpo nero, è stata dimostrata proprio da Einstein nel suo lavoro sull’Effetto Fotoelettrico per il quale prese il premio Nobel nel 1921, fu proprio in questo studio che per la prima volta venne data una descrizione teorica e fenomenologica convincente di questo fenomeno tipicamente quantistico studiato già da tempo e mai fino ad allora compreso, per cui i metalli colpiti da luce monocromatica di diverso colore emettono elettroni con differente energie cinetiche in modo non spiegabile dall’elettromagnetismo di Maxwell. La spiegazione fornita da Einstein è importante non solo per la comprensione del fenomeno fisico in sé stesso ma anche dal punto di vista filosofico, in quanto per la prima volta si propone che l’energia e la quantità di moto vengano trasportate mediante particelle di luce. Il lavoro di Einstein rappresenta l’atto di nascita del concetto di fotone, la particella che ha il compito di trasportare energia e quantità di moto in pacchetti da un punto all’altro dello spazio e dalla quale dipende l’emissione di energia e luce negli atomi con la formazione di spettri atomici discreti, le carte di identità degli atomi.
Oltre allo studio meccanico e chimico delle proprietà della materia, lo studio degli spettri atomici di emissione e assorbimento rimane ad oggi l’unico modo per studiare dal punto di vista fisico la composizione della materia oltre alle proprietà degli atomi e degli ioni in particolari condizioni fisiche come in atmosfere stellari o plasma ad alta temperatura. Nel 1924 con l’ipotesi del dualismo onda-particella introdotta da Louis de Broglie e dimostrata nel 1927 mediante l’esperienza di Davisson e Germer, l’ipotesi di quantizzazione del momento angolare degli elettroni atomici utilizzata da Bohr nel suo modello trovò una piena giustificazione e con la Relatività prima e la Meccanica Quantistica dopo, il modello atomico si trasformò in quello che poi diverrà prima il modello di Bohr-Sommerfeld e poi quello di Schrödinger, tutte evoluzioni a partire dal modello fondamentale di Bohr.
Nel 1916 Arnold Sommerfeld nel tentativo di spiegare alcune caratteristiche “fini” degli spettri atomici e molecolari introdusse la relatività nel modello di Bohr ottenendo un grande miglioramento nella previsione dei valori spettrali e soprattutto scoprendo che gli elettroni si muovevano sulle traiettorie orbitali a velocità relativistiche prestabilite proporzionali ad un valore costante chiamato di struttura fine. Il valore della costante di struttura fine privo di unità di misura è un numero puro che vale 1/137.036. Nel corso degli oltre cento anni che si sono succeduti dalla sua scoperta è diventato tra i più grandi misteri della fisica moderna.
Infatti il suo valore sembra essere definito da un mix di altre costanti come il quadrato della carica elementare dell’elettrone diviso il prodotto tra la costante di Planck e la velocità della luce, ma date le proprietà di questa costante dalla quale dipende il modo di accoppiarsi della carica elettrica elementare con il campo elettromagnetico, non è chiaro il perché debba proprio avere questo valore e non altri e soprattutto, il grande problema filosofico che ne deriva è che se avesse anche un valore di poco differente da quello misurato, 1/136 o 1/138, il mondo così come lo conosciamo non esisterebbe. Gli atomi non sarebbero quelli che sono, le interazioni elettriche sarebbero differenti, sarebbe a serio rischio la creazione della vita stessa, tanto da far credere molti nel “principio antropico”, ovvero che l’universo sia stato in qualche modo regolato tramite il valore della costante di struttura fine in modo da consentire la nascita della vita sulla Terra. Richard Feynman, premio Nobel per la fisica nel 1965 per l’elettrodinamica quantistica disse: “… non ci è dato sapere come Dio ha mosso la sua mano per scrivere il suo valore …”. Nel corso dell’ultimo secolo tutti o quasi tutti i fisici teorici si sono voluti in qualche modo cimentare per cercare di offrire una spiegazione ragionevole al suo valore, perché proprio quello? La fisica che conosciamo crollerebbe per valori differenti, quindi qualcosa di veramente serio quel valore deve nascondere.
A settembre dello scorso anno (2021), dopo anni di tentativi e di simulazioni è stato pubblicato un articolo sul prestigioso “The European Physical Journal D” (EPJ-D) del gruppo editoriale scientifico Springer – Nature a mia firma, nel quale ho cercato di dare il mio contributo per mettere una volta per tutte la parola fine al secolare problema sull’origine della costante di struttura fine.
Preso atto che nessun approccio teorico serio fatto nel passato da altri autori per definire l’origine e il valore della costante di Sommerfeld sembrava essere completamente coerente con il quadro fenomenologico sperimentale e soprattutto compatibile con le tre principali visioni del mondo fisico, vale a dire: elettromagnetica, quantistica e relativistica, ho utilizzato il principio fondamentale della Bridge Theory, secondo il quale la costante di struttura fine detta anche costante di Sommerfeld nasce non da un mix di costanti fisiche fondamentali come si è sempre pensato, ma dalla diretta interazione elettromagnetica fra la carica elettrica negativa di un elettrone o di una particella in movimento e il campo elettrico positivo della materia che la circonda.
Pur essendo un approccio considerato eretico in quanto non utilizza al suo interno tutti i paradigmi dalle teorie contemporanee, la Bridge Theory è una teoria corretta in quanto fornisce risultati in accordo con il quadro sperimentale, è coerente con l’Elettromagnetismo maxwelliano e soprattutto è una teoria quantistica e relativistica al contempo, non ha quindi bisogno di introdurre al suo interno i principi quantistici e relativistici perché li contiene, fornendo una compatibilità sbalorditiva e inattesa tra due mondi, quello quantistico è quello relativistico, che a ben vedere troppo compatibili a prima vista non sembrano.
Purtroppo questa teoria non ha mai convinto i più, infatti, per provarla non bastano dei risultati teorici, ci vogliono delle applicazioni indipendenti, delle verifiche sperimentali. Così in attesa di una verifica sperimentale reale ho provato a simulare teoricamente la formazione di un atomo di idrogeno semplicemente facendo interagire per cattura spontanea un protone è un elettrone seguendo gli schemi della Bridge Theory.
Il risultato è stato straordinario. Gli atomi di idrogeno si formano spontaneamente per attrazione elettromagnetica dando origine ad un modello atomico nelle sue linee generali simile a quello di Bohr-Sommerfeld e lo fanno dando origine al valore di costante di struttura fine che conosciamo. Vale a dire, il valore della costante di Sommerfeld è determinato dal modo di interagire del protone e dell’elettrone e non è il valore della costante a determinare il tipo di interazione come si è sempre pensato.
Quindi la costante di Sommerfeld può variare di poco e temporaneamente dando origine ad una variabilità stocastica ma non può avere altro valore che quello che ha e il risultato ottenuto è incontrovertibile in quanto gli atomi di idrogeno che si è formano per cattura possiedono tutti le caratteristiche di un vero atomo di idrogeno, cosa che dovrebbe a questo punto fornire una chiara indicazione della non validità del principio antropico, della unicità del valore 1/137.036 e della quasi isotropia con cui la materia è potuta formarsi e interagire in ogni parte dell’universo.
Inoltre se prima non era possibile calcolare la costante di struttura fine in quanto poteva essere solo misurata sperimentalmente o ottenuta come costante derivata dal mix di costanti fondamentali misurate, ora accertati i meccanismi fisici da cui deriva, il suo valore è perfettamente calcolabile in tutte le sue varianti e la sua accertata stabilità stocastica le conferisce a pieno diritto il ruolo di pilastro fondamentale della natura consentendoci di pensare all’universo come ad un luogo dove è il valore direzionale di questa costante a informarci delle differenti condizioni in cui si è trovata a formarsi e ad interagire la materia nell’universo primordiale.