.
Doline, grotte, inghiottitoi. Crepacci di roccia incisi dall’acqua che lasciano spazio alla vertigine e al silenzio, alla desolazione e alla meraviglia. Angoli di montagna che rimandano al paesaggio lunare per l’assenza del reticolo idrografico superficiale e la bassa densità di vegetazione arborea. I territori carsici sono presenti qua e là sull’arco alpino e su quello appenninico, ma raggiungono la loro massima espressione nel Carso Triestino (da cui prendono il nome) e nelle Alpi Friulane in generale. Mondi sotterranei da esplorare, custodi di segreti e storie da raccontare, come quelle che conserva il Monte Canin, imponente massiccio di 2.587 metri di altitudine che separa l’Italia dalla Slovenia, tana di grida, lacrime e dolore durante la Prima guerra mondiale.
Posto tra la Val Raccolana a nord e la Val Resia a sud, il gruppo del Canin è morfologicamente esposto alle correnti umide meridionali di scirocco e di libeccio, risultando tra le zone più precipitative d’Italia insieme alle limitrofe Prealpi Giulie. Più di duemila i litri d’acqua per metro quadrato di terreno attesi ogni anno nelle aree di fondovalle, fino a tremila quelli stimati oltre i 2.000 metri di altitudine. Valori pluviometrici importanti a cui corrispondono ingenti quantitativi di neve fresca, gli stessi che a partire dagli anni Sessanta hanno portato alla creazione di Sella Nevea, celebre appendice sciistica del comune di Chiusaforte (UD). E non è un caso, allora, che negli ultimi anni proprio questa zona sia stata oggetto di approfonditi lavori di ricerca, da poco sfociati in un’apposita pubblicazione apparsa sulla prestigiosa rivista scientifica Atmosphere.
Un team internazionale composto da ricercatori dell’Istituto di Scienze Polari del CNR, della Aberystwyth University del Galles, delle Università di Trieste e Udine e dell’Eötvös Lorànd University di Budapest, infatti, si è a lungo soffermato sui piccoli corpi glaciali delle Alpi Giulie, studiandone caratteristiche, ampiezze e comportamenti, fino a giungere a un’insperata conclusione: negli ultimi tredici anni i corpi glaciali della zona sono rimasti invariati e, in alcuni casi, si sono addirittura ampliati, in totale controtendenza rispetto a tutte le altre zone alpine e apparentemente in contraddizione con i trend ormai consolidati di fusione glaciale e riscaldamento globale.
Tra il 2006 e il 2018, ad esempio, la superficie topografica del corpo glaciale orientale del Canin si è alzata di 3,53 metri mentre il suo volume è aumentato di 43.198 metri cubi. Valori effettivi e non stimati, ottenuti attraverso l’intreccio di diverse metodologie di rilevamento: misure glaciologiche e geodetiche tradizionali, sondaggi LIDAR da elicottero, campagne di fotogrammetria da terra e da drone. Analisi puntuali in situ, dunque, che hanno parimenti consentito di analizzare l’esatta morfologia dei singoli corpi glaciali, arrivando così a considerare il Ghiacciaio Occidentale del Montasio come l’unico dotato ancora di una debole dinamica interna (ovvero di un certo movimento intrinseco, tipico dei ghiacciai veri e propri) a differenza degli altri ventidue corpi glaciali minori delle Alpi Giulie, assimilabili invece ai glacionevati, masse omogenee di neve e di ghiaccio prive però di movimenti interni.
Assodate le misurazioni, gli studiosi hanno cominciato a ricercare le cause dell’anomalia glaciale friulana, partendo ovviamente dall’andamento termico registratosi nella zona negli ultimi anni. In questo caso, però, nessuna sorpresa e nessuna anomalia. Il riscaldamento globale alza la voce anche sulle pendici del Canin, scivola tra le piste di Sella Nevea e s’invola tra gli abissi carsici. Il 2020 sulle Alpi Giulie è stato il secondo anno più caldo degli ultimi centosettanta, con un mese di novembre mai così mite dal 1851. La stazione meteorologica posta a 2200 metri di quota sul Monte Canin non registra una temperatura media annua inferiore a 0 gradi dal 1984 e negli ultimi tre decenni si è assistito a un incremento termico annuo di +1.5°C. Da cosa nasce, allora, la resilienza glaciale friulana?
Paradossalmente proprio dall’aumento delle temperature, ma in una zona molto lontana dall’arco alpino. “Nell’Artico il riscaldamento sta procedendo a un ritmo molto più serrato rispetto alle nostre latitudini – spiega Renato Colucci, ricercatore del CNR-ISP e coordinatore del team di lavoro – e uno degli effetti predominanti è la drastica riduzione del ghiaccio marino che contribuisce agli effetti di amplificazione del riscaldamento. Questo elemento sta modificando la traiettoria della circolazione globale dell’emisfero settentrionale (onde di Rossby) attraverso un processo che prende il nome di Quasi Resonant Amplification (QRA)”. In poche parole i flussi atmosferici tendono a essere più sviluppati in latitudine e più lenti nel loro movimento verso oriente, causando lunghi periodi di stasi meteorologica con precipitazioni continue e costanti nei medesimi areali.
E parlando delle montagne più piovose dell’intero arco alpino non è cosa da poco. “C’è un altro riscaldamento da non sottovalutare – prosegue Colucci. “Quello del Mare Adriatico, la cui temperatura superficiale è aumentata di oltre un grado tra il 1946 e il 2015. Questo intensifica i moti convettivi e spesso provoca precipitazioni più intense proprio a ridosso dei massicci montuosi delle Giulie”. Le grandi nevicate, dunque, alla base dell’anomalia glaciale delle Alpi Giulie. Accumuli nevosi talmente importanti da riuscire, per ora, a compensare l’ablazione estiva che si è fatta nel frattempo sempre più intensa, con i numeri dei giorni caratterizzati da temperature positive ai 2200 metri del Canin passati dai 170 della fine degli anni Settanta ai 190 di oggi, con una dilatazione temporale di quasi tre settimane.
Non devono allora stupire le abbondanti nevicate registratesi nella zona durante l’ultimo inverno. Ai 1840 metri di quota del Rifugio Gilberti nel massiccio del Canin, ad esempio, a fronte di una media nivometrica storica di 680 cm (dal 1° dicembre al 30 aprile) e una media dell’ultimo decennio di 797 cm, nella stagione in corso si sono accumulati 1088cm, con un’altezza massima al suolo di 487 cm il 24 gennaio, valore più alto mai registrato per il periodo dall’inizio delle rilevazioni nel 1972 (dati forniti dalla “Struttura stabile centrale per l’attività di prevenzione del rischio da valanga” del Corpo forestale della Regione autonoma del Friuli Venezia Giulia, ndr). Ingenti quantitativi di pioggia e di neve, quindi, che stanno temporaneamente salvando i corpi glaciali delle Alpi Giulie, ma che possono aggravare il rischio idrogeologico alle quote più basse, con inondazioni o valanghe di grosse dimensioni che si abbattono su zone antropizzate o vie di comunicazione, come accaduto nello scorso mese di gennaio in Val Raccolana.
Una resilienza glaciale acuita da particolari condizioni topografiche capaci di favorire i depositi valanghivi, che però non deve trarre in inganno. “Dagli anni Settanta la quota media delle nevicate a livello alpino è passata dai 1300 ai 1600 metri di altitudine – conclude Colucci. “Se le misure necessarie per contenere il riscaldamento globale in atto non saranno attuate o lo saranno solo in parte e la temperatura continuerà ad aumentare a questo ritmo, la pioggia raggiungerà con maggior frequenza i bacini di accumulo glaciale anche durante i mesi invernali e questo particolare meccanismo di compensazione microclimatica verrà meno”. I piccoli corpi glaciali delle Alpi Giulie, a quel punto, intraprenderanno un inevitabile cammino di fusione, orgogliosi, forse, di averci provato nonostante tutto. Ciò che l’importante ricerca “Recent Increases in Winter Snowfall Provide Resilience to Very Small Glaciers in the Julian Alps, Europe” ha messo in luce, dunque, non è la presunta evoluzione ultima, ma la sua modalità temporale di attuazione. E per il giorno d’oggi scusate se è poco.