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Lucy troppo lenta per la corsa a distanza. L’Homo sapiens più veloce

Era il 24 novembre 1974 quando vennero scoperti i resti di Lucy, l’ominide più noto mai ritrovato e vissuto 3,2 milioni di anni fa.

Che l’uomo si sia evoluto soprattutto grazie alla corsa, non tanto al cammino non è una novità: gli studi dell’antropologo Daniel Lieberman e del biologo Dennis Bramble sono stati pubblicati  su “Nature” addirittura nel 2004, e descrivono come la struttura del nostro corpo ha preso forma, più di due milioni di anni fa, proprio in risposta alla necessità di correre a lungo nella savana. Ciò consentiva ai nostri antenati di competere per il cibo, inseguire prede ed evitare i predatori meglio di quanto non accadesse semplicemente camminando.

In base alle analisi di Lieberman e Bramble, il corpo umano mostra una serie di adattamenti specifici per la corsa prolungata: muscoli, tendini, articolazioni e la lunghezza degli arti inferiori sono ottimizzati per correre con un minor consumo energetico. Rispetto alle scimmie, che hanno muscoli più potenti ma consumano più energia, noi possediamo tendini più elastici, come il tendine d’Achille, e una struttura del piede e delle gambe che ci permette un notevole risparmio energetico. La lunghezza degli arti inferiori, inoltre, aumenta l’efficienza del passo e migliora la distribuzione dei carichi sul corpo.

L’evoluzione della postura eretta e del bipedismo non è quindi avvenuta solo per camminare, ma per correre a lungo. Questo spiega anche perché l’anatomia della testa, del collo, delle spalle e del tronco si sia modificata in modo da bilanciare le sollecitazioni e le forze in gioco durante la corsa. Abbiamo sviluppato una potente muscolatura glutea, essenziale per stabilizzare il corpo in movimento, e un legamento nucale per sostenere la testa, assente nei primati incapaci di correre a lungo.

Altri adattamenti, come la sudorazione abbondante, la perdita del pelo corporeo, una forma corporea più slanciata e la capacità di respirare a bocca aperta, erano indispensabili per disperdere il calore e mantenere la temperatura entro limiti sicuri durante la corsa sotto il sole della savana.

La necessità di trovare e cacciare cibo ha contribuito a perfezionare queste caratteristiche. La capacità di correre a lungo permetteva ai nostri antenati di inseguire le prede fino allo sfinimento e di intervenire in modo coordinato, collaborando fra loro. Tali abilità, sia fisiche sia sociali, hanno favorito l’evoluzione di Homo, che ha iniziato a espandersi oltre l’Africa, diventando un vero “viaggiatore” in grado di adattarsi a condizioni ambientali sempre mutevoli.

L’archetipo di questo “uomo corridore” è probabilmente Homo ergaster, ritrovato nei pressi del lago Turkana, con uno scheletro molto simile al nostro. Da quel momento, l’uomo non ha mai smesso di muoversi, di correre, continuando a evolversi come un instancabile corridore.

L’analisi di modelli 3D del Australopithecus afarensis, noto come Lucy, una specie di ominide vissuta oltre tre milioni di anni fa, rivela che questi antichi parenti umani erano capaci di correre su due gambe, ma a velocità significativamente inferiori rispetto agli esseri umani moderni. I risultati, pubblicati su Current Biology, approfondiscono le differenze muscolari e anatomiche che distinguono l’abilità di corsa di A. afarensis da quella di Homo sapiens.

Secondo Herman Pontzer, antropologo evoluzionista della Duke University, questa ricerca offre un’analisi dettagliata delle capacità di corsa e delle adattazioni muscolari dei nostri antenati. A. afarensis è noto per la sua postura eretta e bipedale, che lo rende un soggetto ideale per studiare l’evoluzione del bipedismo, ma le sue capacità di corsa sono state meno esplorate fino ad ora, spiega Karl Bates, co-autore dello studio e ricercatore in biomeccanica evolutiva presso l’Università di Liverpool.

Un “primato lento”

Per condurre la ricerca, Bates e il suo team hanno sviluppato un modello digitale 3D basato sullo scheletro di “Lucy”, un esemplare quasi completo di A. afarensis scoperto in Etiopia circa 50 anni fa. Utilizzando le caratteristiche muscolari degli attuali primati e l’analisi della superficie delle ossa di Lucy, i ricercatori hanno stimato la massa muscolare dell’ominide. Successivamente, hanno creato una simulazione per far “correre” il modello di Lucy, confrontandone le prestazioni con quelle di un modello digitale di un essere umano moderno.

I risultati mostrano che, pur potendo correre su due gambe, Lucy mancava del tendine d’Achille allungato e delle fibre muscolari corte che favoriscono la corsa di resistenza negli esseri umani odierni. Inoltre, la velocità massima di Lucy si fermava a circa 5 metri al secondo, anche dopo aver modificato il suo modello con muscoli simili a quelli umani. Per confronto, il modello umano ha raggiunto una velocità di circa 8 metri al secondo. Anche eliminando la variabile della dimensione corporea, le prestazioni di Lucy rimanevano inferiori, suggerendo che le sue proporzioni fisiche rappresentavano il limite principale. Come osserva Bates, “anche potenziando tutti i muscoli, Lucy era comunque più lenta.”

Implicazioni evolutive

Questi risultati evidenziano come le capacità di corsa di lunga distanza siano una caratteristica unica sviluppata più tardi nella linea evolutiva umana, con modifiche anatomiche che hanno reso gli esseri umani moderni adattati per correre a velocità più elevate e su distanze maggiori.

Per approfondire: Nature